Il valore dei dati aperti sui cittadini in mobilità
In questo articolo vi racconterò di come abbiamo liberato i dati sui cittadini in mobilità in Italia e di quanto questo avrà un impatto concreto sulla vita di milioni di italiani in un futuro prossimo.
Partiamo dalla premessa di questa storia: sono fondatore e al momento presidente del comitato civico Iovotofuorisede. Il comitato ha l’obiettivo di far introdurre in Italia una legge che permetta il voto a distanza ai cittadini in mobilità, ovvero quelle persone che hanno un domicilio lontano dalla loro residenza.
Come viene raccontato in questo paper pubblicato insieme a The Good Lobby, l’Italia ad oggi è l’unico paese europeo, insieme a Cipro e Malta, a non aver ancora attuato nessun meccanismo che tuteli il diritto di voto di queste persone.
Nella battaglia che stiamo portando avanti come comitato Iovotofuorisede, sono sempre andato alla ricerca di un dato ufficiale che rispondesse a questa semplice domanda: “ma quante sono le persone che, per mancanza di questa legge, hanno delle difficoltà ad esprimere il loro diritto di voto?”
L’unico dato che ero riuscito a trovare è quello riguardante gli studenti universitari: grazie al sito del MIUR che espone le anagrafiche degli studenti, è possibile estrarre il numero degli studenti che studiano in una università fuori dalla propria regione di residenza: il numero si aggira mediamente intorno ai 400.000 studenti universitari l’anno.
Questa cifra, benché assolutamente rilevante, è però del tutto parziale in quanto non tiene conto di un’altra classe di persone, ovvero i lavoratori pendolari di lungo raggio.
Su questa categoria di persone sembrava che non ci fossero dati disponibili, né possibilità di rintracciarli. Finché a marzo 2020 non mi capita sott’occhio un nuovo dataset che l’ISTAT pubblica sul suo sito nella sezione statistiche sperimentali: si tratta del dataset sulla popolazione insistente per studio e lavoro nel 2017.
Questo dataset quantifica gli individui che, pur non essendo residenti, per motivi di studio o lavoro “incidono” su una determinata area geografica. Esulto.
Sembra proprio che l’ISTAT abbia finalmente dato risposta a quella domanda a cui cercavo risposta da quasi 12 anni!
Ma non appena apro il dataset arriva la doccia gelata: i dati sono forniti per singolo comune, una granularità troppo fine per poter estrapolare il numero di fuorisede per regione.
Tuttavia, consapevole dell’importanza del dataset che mi trovavo tra le mani, non mi perdo d’animo, e dopo essermi confrontato con i miei massimi riferimenti in tema di Open Data e ISTAT, ovvero Andrea Borruso e Vincenzo Patruno, contatto direttamente ISTAT tramite il loro Contact Centre e chiedo loro di produrre il dataset con una granularità di tipo regionale.
Con mia grande sorpresa e soddisfazione ISTAT mi risponde prontamente e promette che, essendo possibile tecnicamente farlo con i dati a loro disposizione, con il successivo aggiornamento del dato avrebbero riportato la granularità richiesta.
Cosa che puntualmente avviene il 3 giugno 2021 con l’aggiornamento del dataset ai dati del 2018 e che potete consultare qui.
A partire da questo dataset è stato possibile estrarre facilmente il dato che cercavo: sono ben 3 milioni i cittadini che si trovano a vivere o lavorare fuori dalla propria regione di residenza. I dati elaborati a partire dal dataset ISTAT li potete trovare qui.
Da questo dataset Andrea Borruso ha poi creato questo preziose e interessantissime visualizzazioni grafiche che raccontano:
1) quanti individui escono da una regione (ogni 100 residenti per regione di origine)
2) quanti individui entrano in una regione (ogni 100 residenti per regione di destinazione)
3) quanti individui entrano in una regione (in valore assoluto)
4) il rapporto tra individui entranti ed uscenti per ogni regione
ed infine una mappa dei flussi tra le regioni grazie alla quale si possono fare analisi di questo genere:
Un avvenimento molto positivo seguito alla pubblicazione di questi dati è che è stata istituita una Commissione di lavoro sul tema dell'astensionismo presso il Ministero dei Rapporti con il Parlamento con l’obiettivo di approfondirne le cause e proporre una soluzione legislativa che possa risolverle.
A fine marzo è previsto il report di questa Commissione governativa che, incrociando le dita, dovrebbe segnare una pietra miliare nel percorso verso il traguardo del compimento di questa piccola rivoluzione da troppo tempo attesa.
Qui si conclude la storia che volevo raccontare ma se vogliamo praticare l’antico esercizio di cercare una morale in tutto questo, qui potremmo rintracciarne non una, bensì due a mio parere.
La prima è che quando vi chiederanno per l’ennesima volta “sì, d’accordo, belli e giusti gli Open Data ma esattamente e concretamente come possono cambiare la mia vita?”, avrete un esempio pronto con cui poter rispondere.
La seconda, che mi porto come il bagaglio personale più importante in tutta questa storia, è che non è vero che se le cose stanno in un modo, significa che debbano essere per forza in quel modo lì, anzi.
Spesso bisogna soltanto studiare le alternative, approfondire, organizzarsi e fare le corrette domande nel modo giusto: siamo più fortunati di quel che siamo abituati a pensare.
Infatti se da una parte è vero che le istituzioni ancora non sono proattive e concepite per cogliere i bisogni e le necessità della popolazione, dall’altra esse sono presenti e davvero spesso hanno soltanto bisogno di essere adeguatamente stimolate dal basso per produrre le soluzioni ed il risultato di cui abbiamo bisogno.
Perché come ci ricorda un detto della nostra saggezza popolare “testa ca ‘un parra si chiama cucuzza!" (n.d.r. per i non siciliani “la testa che non parla è soltanto una zucca vuota!”)